Uno degli effetti della guerra in Ucraina è stato dare un nuovo significato politico ai motivi per cui l'Unione Europea si è impegnata nel progressivo abbandono delle fonti fossili di energia. I due scalini previsti dall'Ue sono il programma “Fit-for-55”, che prevede il taglio delle emissioni del 55% entro il 2030, e il Green Deal, la cui architrave sono le emissioni zero al 2050. Gli obiettivi europei erano - e sono - climatici, guidare il processo globale di decarbonizzazione per rispettare i limiti dell'Accordo di Parigi e spingere i più riottosi (India, Cina, Russia) a fare altrettanto.
Ma oggi il confronto tra le due energie, fossile e rinnovabile, ha una nuova chiave di lettura. Sole e vento sono prodotti «locali», possono subire le fluttuazioni del meteo, non il caos geopolitico. Petrolio e gas sono prodotti «internazionali», da acquistare su mercati turbolenti, da partner imprevedibili, comportano relazioni disfunzionali. Sono una zona di pericolo, una vulnerabilità strategica.
L'Unione Europea si è trovata in una posizione scomoda allo scoppio della guerra: il 40% del gas consumato in Europa viene dalla Russia, uno scambio commerciale e ineliminabile nell'immediato proprio con il paese invasore. Tutto il tempo perso nella transizione energetica ha presentato il conto ai paesi europei, soprattutto i più esposti, come l'Italia, dove il gas ha ancora un ruolo molto grande nella generazione elettrica e dove le rinnovabili scontano un decennio di ritardi, e la Germania, che aveva addirittura portato avanti il raddoppio del suo gasdotto con la Russia, il Nord Stream 2, poi bloccato nella fase finale, quella di autorizzazione, proprio a causa del conflitto. Nord Stream 2 rischia di essere il primo di una serie di stranded asset (risorse bloccate, ndr) che questa guerra lascerà sul campo. E così ai due piani a lungo termine come Fit for 55 e Green Deal, l'UE ha dovuto aggiungere il faticoso obiettivo di breve termine: tagliare la dipendenza da gas russo dell'80% entro la fine dell'anno. È una strada che rischia di lasciare un'eredità complessa da gestire, perché questa crisi energetica può sia accelerare la transizione che farla impantanare, e ci sono segnali che vanno in entrambe le direzioni.
Un nuovo rapporto con l’energia
L'aspetto positivo è che, come nello shock petrolifero del 1973, la guerra ha riacceso il dibattito sul grande pezzo mancante nelle strategie di decarbonizzazione: risparmio ed efficienza energetica. Se attuati con strategia, non significano austerity né un peggioramento dello stile di vita, ma un rapporto più evoluto e adulto con l'energia. È una strada con un doppio binario: i comportamenti sociali e l'innovazione tecnologica.
Il think tank Ecco ha calcolato che un solo grado di riduzione di temperatura nei termostati di case e uffici ci porterebbe a consumare il 7% in meno del gas su base nazionale. Una campagna di informazione su larga scala sul risparmio energetico toglierebbe al denominatore un altro 10%. Spegnere la luce quando non ci serve ed evitare di stare in maniche corte in casa ci farebbero evitare di comprare sul mercato internazionale in totale 7 miliardi di metri cubi di gas all'anno. Un altro tassello è la riconversione termica degli edifici: sostituire le caldaie a gas con le pompe di calore nel 10% degli edifici farebbe risparmiare un altro miliardo di metri cubi. Per farlo sarebbe necessario solo un aggiornamento dell'attuale piano Superbonus 110, che ancora oggi prevede l'accesso agli incentivi anche mantenendo la caldaia a metano. Secondo Bloomberg, inoltre, l'attuale crisi energetica potrebbe inoltre rendere ancora più ambiziosi gli obiettivi per le rinnovabili e sull'efficienza energetica al 2030.
L’Europa a un bivio
L'altro lato è il panico sociale e politico per i costi dell'energia e delle materie prime e per il timore per un taglio di forniture improvviso. È un'atmosfera da economia di guerra, che sta portando l'Italia a valutare la possibilità di rallentare l'uscita dal carbone come fonte di energia (prevista per il 2025, ma verso la quale correvamo in anticipo) e addirittura il ricorso all'olio combustibile, un risorsa da Dopoguerra (e a quel punto sarebbe legittimo chiedersi “quale” dopoguerra). È un dilemma che attraversa anche la Germania, dove ci sono ambiziosi piani di sviluppo delle rinnovabili ma anche tempi di uscita dal carbone (fonte centrale e prevalente) che rischiano di allungarsi.
Il vicepresidente della Commissione, l'uomo europeo del clima Franz Timmermans, lo ha detto già alla seconda settimana di conflitto: «Il carbone oggi non deve essere un tabù». In pochi mesi l'Unione ha smantellato la posizione che aveva tenuto con fermezza alla COP-26 di Glasgow a novembre: «Consegnare il carbone alla storia».
Ora la storia si sta prendendo una rivincita e l'Unione è a un bivio tra fossile e pulito. Lo dimostra anche un altro tassello della strategia di riduzione della dipendenza dal gas russo: puntare forte sul Lng (Liquid natural gas), il gas liquefatto che viaggia via nave e che ha bisogno di essere rigassificato per entrare nel sistema. Su 112 miliardi di metri cubi di gas russo da sostituire a breve, poco meno della metà (50 miliardi) saranno rimpiazzati in Europa da gas liquefatto, in arrivo soprattutto dagli Stati Uniti. Il problema è che questa strada richiederà nuove infrastrutture, che rischiano di diventare a loro volta stranded asset o di allungare il ricorso al gas anche oltre gli obiettivi climatici dell'Europa. Un caso di studio per capire il paradosso è la nuova infrastruttura programmata in Germania, un terminal da 8 miliardi di metri cubi a Brunsbüttel, sulla riva dell'Elba. Tempo di costruzione: circa tre anni. Sarà pronto nel 2025, ma la Germania già dieci anni dopo, nel 2035, progetta di non usare più gas.
Tecnologie, risorse e filiere
L'ultimo pezzo del discorso è industriale: per accelerare la transizione energetica, l'Unione Europea ha bisogno di una politica produttiva coerente con l'ambizione. Oggi solo due pannelli fotovoltaici su cento prodotti nel mondo arrivano da paesi europei, sette delle dieci fabbriche più grandi sono cinesi. Nel 2021, secondo la Commissione, il 25% dei progetti di impianti fotovoltaici in Europa è stato rinviato o cancellato per mancanza di materiali. Per elettrificare il sistema e uscire dalle fonti fossili l'Unione deve diventare più centrale nelle filiere dei metalli critici. Anche se le risorse nel suolo ci sarebbero, le proteste di Spagna, Portogallo, Groenlandia e Serbia contro l'estrazione di litio e terre rare dimostrano che l'Europa non tornerà un continente minerario e che l'unica direzione alternativa è fatta di riciclo ed economia circolare.
Lontano dalla guerra, ma sullo stesso ampio tema, in questi giorni è oggetto di una discussione molto tesa alla Commissione europea un tassello importante del regolamento continentale sulla batterie, che saranno fondamentali per le auto elettriche e gli accumuli per le rinnovabili. Per affrancarci dal complesso mercato internazionale di litio, cobalto e nickel, ed evitare di sviluppare nuove dipendenze, la Commissione propone livelli alti di riciclo delle materie prime dalle batterie dismesse. Se passerà, questo standard europeo non solo avrà un impatto positivo sull'uso delle risorse ma anche sul bisogno chiave di questi giorni: l'indipendenza.