L’interdipendenza aumenta i costi di un’eventuale guerra reciproca, in un mondo globalizzato

L’interdipendenza aumenta i costi di un’eventuale guerra reciproca, in un mondo globalizzato

Mantenere l’equilibrio dei valori in un mercato-mondo stravolto

Dopo due anni di pandemia e lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, i Paesi di tutto il mondo hanno riscoperto il valore della sicurezza nell’economia. Tuttavia, questa legittima esigenza non va erroneamente considerata la fine della globalizzazione

La globalizzazione è finita? Molti ritenevano che l’ordine mondiale nato dal crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 non sarebbe sopravvissuto alle epidemie di Covid-19. In realtà, l’ha fatto. Il commercio internazionale si è ripreso rapidamente e ha contribuito a fornire i beni e i servizi innovativi di cui c’era tanto bisogno per uscire dall’emergenza pandemica, compreso il rapido aumento della produzione di vaccini da zero a miliardi di dosi in pochi mesi.

Eppure, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia racconta una storia diversa. Ha esacerbato la crisi energetica che stava (e sta) mettendo in ginocchio il mondo, e l’Europa in particolare, e ha messo in luce come l’estrema specializzazione di Paesi quali la Russia e l’Ucraina nella produzione di materie prime energetiche e alimentari possa essere tanto positiva per l’efficienza economica quanto dannosa per la sicurezza a lungo termine. Inoltre, ha costretto il resto del mondo, da Pechino a Washington, fino a Bruxelles, a prendere in considerazione politiche per ottenere un maggiore controllo sui loro approvvigionamenti essenziali.

I critici della globalizzazione sostengono che questa volta è diverso. Particolarmente rilevante è quanto ha scritto il ceo di Blackrock, Larry Fink, in una lettera agli azionisti in cui afferma che “l’invasione russa dell’Ucraina ha messo fine alla globalizzazione come l’abbiamo conosciuta negli ultimi trent’anni. Avevamo già visto l’interconnessione tra nazioni, aziende e persino persone vacillare in due anni di pandemia, che hanno suscitato in molte comunità una sensazione di isolamento e le hanno spinte a chiudersi in se stesse. Credo che ciò abbia esacerbato la polarizzazione e i comportamenti estremisti che si osservano oggi nella società”. Altri sostengono che i governi dovrebbero svolgere un ruolo più incisivo nel guidare l’economia e gli investimenti, in modo da evitare un’eccessiva interdipendenza fra i Paesi, motivo per cui si elaborano ovunque politiche per “rinazionalizzare” le produzioni considerate “strategiche”.

Eppure, la maggior parte del mondo potrebbe unirsi e mobilitarsi contro l’aggressione della Russia non malgrado, ma proprio in ragione della globalizzazione. Le sanzioni economiche colpiscono molto duramente perché sì, il mondo dipende da Mosca per un certo numero di materie prime, ma anche Mosca dipende dal resto del mondo, sia finanziariamente sia per quanto riguarda una serie di importazioni fondamentali.

I tragici sviluppi della guerra in Ucraina dimostrano come l’interdipendenza aumenti i costi di un’eventuale guerra reciproca. La globalizzazione ha portato grandi benefici in tutto il mondo, facendo innanzitutto aumentare i redditi per la maggior parte della popolazione e liberando centinaia di milioni, se non miliardi, di persone dalla povertà estrema. È proprio per questo che le sanzioni economiche funzionano: perché escludono dalla globalizzazione il Paese interessato. Così la Russia si trova oggi a lottare per proteggere la sua moneta e, ancora più importante, per ottenere l’accesso a quei beni e servizi che importa dall’estero. Naturalmente, tutto questo ha un costo: tagliando i suoi legami con la Russia, il resto del mondo perde l’accesso ai suoi mercati, dove da anni si scambiano beni e servizi che vanno dal petrolio al gas, dai beni di lusso ai componenti meccanici.

Allo stesso tempo, il mondo ha scoperto l’importanza della sicurezza. Questo aspetto è particolarmente evidente nel caso dell’energia: l’Unione europea è diventata troppo dipendente dalla Russia per il suo fabbisogno di gas naturale. Di conseguenza, si trova bloccata in una situazione paradossale: essendoci poche possibilità di ridurre in modo sostanziale le importazioni di gas naturale dalla Russia nel breve termine, la stessa Europa che condanna solennemente la guerra di Vladimir Putin all’Ucraina, finisce indirettamente per finanziarla. La cosa peggiore è che non sembra esserci una via d’uscita immediata, salvo optare per un drastico razionamento della domanda di energia per diversi mesi. Putin stesso ha minacciato apertamente, o alluso implicitamente, la possibilità di tagliare le forniture all’Europa se Bruxelles non revocherà o ridurrà il suo sostegno a Volodymyr Zelensky. La sua minaccia ha però una credibilità limitata, perché in fin dei conti la Russia ha bisogno dei soldi dell’UE almeno quanto l’UE ha bisogno del suo gas naturale.

Queste dinamiche insegnano che la sicurezza ha valore in sé e merita attenzione quale obiettivo prioritario delle politiche europee, al pari della sostenibilità e della competitività economica. In pratica ciò significa, da un lato, che per il futuro è auspicabile un’“eccedenza” infrastrutturale, ad esempio con la creazione di più terminali di gas naturale liquefatto (Gnl), ma dall’altro lato che la politica di ridimensionamento della produzione nazionale di idrocarburi è stata imprudente (non a caso sta subendo una rapida inversione di tendenza).

La prossima domanda quindi è: appurato che l’energia è un input fondamentale della nostra vita moderna, quali altri beni presentano caratteristiche tali da giustificare una politica orientata alla sicurezza? Forse i semiconduttori? O i generi alimentari? O le mascherine, come abbiamo improvvisamente scoperto con la diffusione del Covid? Con il senno di poi, ognuno di questi beni e molti altri avrebbero potuto essere considerati vitali. Ma purtroppo la vita raramente concede il beneficio di prevedere il futuro e, infatti, l’unica conclusione logica sarebbe che ogni processo produttivo andrebbe rinazionalizzato, mettendo fine alla globalizzazione, non perché abbia fallito, ma in via precauzionale. Sfortunatamente, sarebbe una “politica suicida” che annienterebbe non solo i rischi della globalizzazione, ma anche i suoi benefici, finendo per impoverire la società.

La sicurezza andrebbe adeguatamente considerata nell’attività politica, in particolare con riferimento agli approvvigionamenti essenziali, ma non può essere una variabile indipendente, proprio come nessun altro fattore od obiettivo andrebbe ritenuto più importante degli altri. Il potere della globalizzazione risiede nella profonda rete di collaborazioni che crea e qualsiasi tentativo di limitarla porterà a conseguenze pericolose sia nel breve che nel lungo periodo. Se c’è una lezione da imparare dalla guerra di Putin, è che far parte del mondo globalizzato può sì indebolire un Paese, ma rimanerne esclusi avrebbe ripercussioni di gran lunga peggiori.


Carlo Stagnaro - È direttore ricerche e studi dell'Istituto Bruno Leoni. Precedentemente è stato capo della segreteria tecnica del ministro presso il ministero dello Sviluppo economico. Si è laureato in Ingegneria per l'ambiente e il territorio presso l'Università di Genova e ha conseguito un dottorato di ricerca in Economia, mercati, istituzioni presso IMT Alti Studi - Lucca. Fa parte della redazione delle riviste Energia e Aspenia ed è membro dell'Academic Advisory Council dell'Institute of Economic Affairs. È editorialista economico dei quotidiani Il Foglio e Il Secolo XIX. Il suo ultimo libro, scritto a quattro mani con Alberto Saravalle, è Contro il sovranismo economico (Rizzoli, 2020).

Altri come questo