È il fiore all’occhiello dell’Italia che innova, che sa produrre visioni anticipatrici, che offre soluzioni pragmatiche per le sfide più rilevanti della nostra epoca. Un prototipo architetturale per cui l’uso della parola “iconico”, per una volta, non si spreca. Ma è anche e soprattutto un simbolo di convergenza e conciliazione per il quale il Bosco verticale, lanciato quasi dieci anni fa da Stefano Boeri con il suo studio a Milano, ha sedotto una platea realmente internazionale, conquistata dalla possibilità di armonizzare, anche entro l’altissima densità abitativa che distingue le nostre città e metropoli, la vita dell’uomo con quella del suo orizzonte naturale. Oggi, le repliche in tutto il mondo sembrano dimostrare la capacità di poter adattare e scalare il modello primigenio secondo le variabili locali. Aprendo la strada alla diffusione di un nuovo modo di concepire l’architettura su scala globale.
Il concept dell’opera
Nutrita di sollecitazioni letterarie e, bisogna riconoscerlo, di esempi emblematici preesistenti che già nella stessa Milano facevano convergere il tema del giardino e del tetto verde con quello dell’architettura residenziale, il Bosco Verticale ha avuto una genesi complessa, determinata dalla portata di una sfida a cui mai, fino a quel momento, si era cercato di dare una soluzione alzando l’asticella così in alto. Il modello edilizio incarnato dal Bosco Verticale risponde al bisogno di natura in città con un’intensità senza precedenti, e lo fa integrando le piante nella facciata non come un mero vezzo ornamentale, ma attraverso l’inserimento di vasche a sbalzo che permettono agli alberi di vivere sospesi fino a 100 metri. Nel Bosco Verticale, il verde si fa facciata e si offre alla vista di abitanti e cittadini come una cortina cangiante, in linea con l’avvicendarsi delle stagioni. Una risposta viva, dunque, all’architettura minerale di vetro e cemento a cui siamo abituati, e che può riconsegnarci un rapporto ritrovato con la dimensione vegetale e con tutti i benefici che questa può apportare. E anche una rivoluzione, come avremo modo di spiegare, che integra la gestione del verde a livello della “governance” dell’edificio. “Piuttosto che un oggetto architettonico tout-court”, riporta Stefano Boeri Architetti “la presenza della componente vegetale rende il Bosco Verticale assimilabile a un insieme di processi – in parte naturali, in parte gestiti dall’uomo – che accompagnano nel tempo la vita e la crescita dell’organismo abitato”.
I benefici sull’abitare
Stefano Boeri (nella foto sotto, ndr), Gian Andrea Barreca e Giovanni La Varra, fondatori dello studio, hanno messo a punto per oltre tre anni la fattibilità del primo progetto, finanziato da Hines nel quartiere Isola a Milano, insieme ad un team interdisciplinare composto anche da botanici, etologi e paesaggisti. Il potenziale sostenibile è apparso fin da subito chiaro: incorporata nella vita stessa dell’edificio, la fitta cortina verde avrebbe agito contemporaneamente su molteplici livelli di comfort, tanto bioclimatici che psicologici. Il primo beneficio, il più imponente e misurabile, è quello relativo all’efficienza energetica, potenziata grazie ad un abbassamento della temperatura percepita in estate di circa 3 gradi all’interno dell’edificio, e un effetto di mitigazione delle temperature più rigide rilevabile anche in inverno. Massimizzando la propria superficie verde, la chioma diffusa avrebbe permesso di assorbire anidride carbonica, offrendosi come un filtro capace di trattenere 14 tonnellate di CO₂ l’anno, e di produrne 9 in ossigeno. La magnificazione della presenza della flora, poi, si promette di esercitare un’influenza su una componente più ineffabile, ma certamente significativa: circondati dal verde, gli abitanti della torre avrebbero potuto beneficiare di un inestimabile tonico sull’umore, scaturito anche da una migliore gestione della luce, e di un abbassamento dei livelli di stress.
La sfida tecnica
Per rendere possibile questa piccola rivoluzione architettonica, soluzioni tecniche inoppugnabili dovevano rispondere all’ambizione e al potenziale seduttivo di questo edificio prototipo. Una, fondamentale, ha riguardato la questione del peso. Un numero così elevato di piante ad alto fusto rappresenta un carico importante sulla struttura dell’edificio che si traduce anche, come sostengono coloro che nel Bosco Verticale vedono principalmente un’operazione di greenwashing, in un uso maggiorato di rinforzi in acciaio e cemento il cui debito di carbonio non è neanche compensato dalla produzione di ossigeno dell’edificio. Per minimizzare questo peso, specifici accorgimenti sono stati messi a punto per ridurre il peso specifico del terriccio, senza che questo impattasse il processo di crescita delle piante selezionate da Laura Gatti, paesaggista e principale artefice del progetto verde in seno al Bosco.
Altra questione è quella dell’approvvigionamento idrico, reso complicato non solo per la quantità di acqua necessaria, ma anche per l’altezza da raggiungere per distribuirla. Per questo motivo un sistema di filtraggio degli scarichi grigi delle torri è stato orientato alle specifiche esigenze dell’irrigazione, mentre i fabbisogni idrici delle piante sono monitorati da un impianto a sonde, controllato digitalmente in remoto.
I numeri green
Gli effetti di questo cambio di approccio non mancheranno di fare scuola, anche grazie a numeri iperbolici della nuova popolazione verde dell’edificio. Indicato come “l’edificio prototipo”, il primo Bosco Verticale milanese vede la luce nel 2014 con due torri di 110 e 76 metri di altezza. Le specie vegetali che lo popolano si dividono in alberi, arbusti e piante floreali, per un totale di 20mila piante e 900 alberi da tre, sei o nove metri. La concentrazione di verde sviluppata in verticale è concentrata su 3mila metri quadrati di superficie urbana: per rendersi possibile attraverso uno sviluppo orizzontale, lo stesso numero di piante si sarebbero estese su ben 30mila mq di bosco e sottobosco. Condizione, questa, per evitare il rischio del cosiddetto “sprawl” di cui Stefano Boeri ha lungamente parlato: intensificare la densità abitativa urbana, mitigando allo stesso tempo le condizioni di vita più difficili grazie alla presenza della natura, è infatti conditio sine qua non affinché le nostre periferie non si estendano a macchia d’olio, contribuendo al processo dell’erosione di suolo che ha portato, in Italia e ovviamente anche altrove, alla drastica diminuzione di moltissime aree soprattutto coltivabili.
Gli effetti sull’ambiente urbano
Se il Bosco Verticale è, l’abbiamo capito, un edificio che respira, le sue ricadute virtuose non si limitano a una densificazione circoscritta del verde, ma si estendono anche sull’ecosistema immediatamente circostante. Lontano dall’essere un solo vezzo estetico, il verde del Bosco Verticale contribuisce a spezzare gli effetti nefasti delle cosiddette “isole di calore”, quei luoghi circoscritti delle nostre città dove, in mancanza di suoli demineralizzati e traspiranti e di sufficiente presenza di piante, le temperature diventano più alte, con rischi potenzialmente letali per le persone più fragili.
I benefici, ancora, non si limitano al comfort umano, ma anche a quel “multispecismo” che, dopo essere stato invocato da filosofi e intellettuali, si afferma oggi come una strategia vincente per permettere la difesa di una biodiversità sotto attacco. Stiamo parlando, in questo caso, del benessere di tutte le altre specie viventi che, persino negli ambienti urbani più densamente popolati, continuano ad esistere spesso sotto la nostra soglia di percezione: oltre 100 le specie di piante, il Bosco Verticale accoglie anche una ricca biodiversità fatta di uccelli ed insetti che giunti a ripopolare quella che Boeri ha definito “una casa per alberi che ospita anche umani e volatili”.
Un’ulteriore ricaduta collettiva, infine, è quella relativa al paesaggio urbano. Con la sua facciata verde, il Bosco Verticale è un nuovo landmark, premiato peraltro da numerosi concorsi internazionali, che ha creato una nuova dimensione visiva per la cittadinanza e ha contribuito largamente alla riqualificazione dell’area di Porta Nuova o alla sua gentrificazione, nel caso ne parlino i detrattori.
Un modello che fa scuola
Chi si può permettere di abitare tra le chiome del Bosco Verticale? Una nicchia ristretta di super ricchi, sottolineano gli scettici. Eppure, le numerose repliche del Bosco Verticale che hanno cominciato a prendere piede nel mondo non sembrano aver fatto prova di particolare elitismo. Prendiamo il caso recente della Trudo Vertical Forest, primo progetto social housing del Bosco Verticale realizzato ad Eindhoven, nella celebre Strijps-S dove un tempo gli stabilimenti della Philips si ergevano a spina produttiva della città. I suoi 75 metri di altezza, suddivisi in 19 piani, ospitano oggi 125 alloggi offerti in locazione esclusivamente a giovani, a un prezzo calmierato. Le richieste, un indicatore non irrisorio dell’appeal del progetto, hanno superato largamente le domande e si è dovuto procedere con un’estrazione a sorte per individuare i fortunati affittuari.
“Il Bosco Verticale:
- È un progetto di sopravvivenza ambientale per la città contemporanea;
- Moltiplica il numero di alberi nelle città;
- È una torre per alberi abitata da umani;
- È un dispositivo anti-sprawl;
- Demineralizza le superfici urbane;
- Riduce l’inquinamento dell’ambiente urbano;
- Riduce i consumi energetici;
- È un moltiplicatore della biodiversità urbana;
- È un landmark urbano cangiante;
- È un ecosistema vivente”
(Stefano Boeri, “Imparare dal primo Bosco Verticale”, Manifesto)
Un nuovo territorio di sperimentazione per l’evoluzione in divenire del Bosco Verticale, il Vertical Foresting, avviene in Cina, dove Stefano Boeri Architetti è attivo con una sede dello studio, e dove la suggestione offerta del Bosco Verticale ha esercitato una notevole presa, vista la densità abitativa e i problemi di inquinamento che affliggono il gigante asiatico. Altri paesi, dall’India all’Egitto, dal Brasile agli Stati Uniti, stanno sperimentando questo modello secondo declinazioni ogni volta diverse in funzione della fauna locale e delle necessità urbanistiche che caratterizzano ogni specifico sistema urbano. Dimostrando il potenziale resiliente che i nostri ambienti metropolitani sono capaci di incarnare a dispetto dei notevoli stress test che li affliggono. "È nelle città che si devono trovare le soluzioni per invertire i meccanismi che ci stanno portando all’autodistruzione - ha dichiarato Stefano Boeri -: è compito dell’architettura creare gli spazi per la coesistenza delle diversità, biologiche e culturali, spazi che intensificano le relazioni, spazi che moltiplicano la vita".