La città, questa grande ammaliatrice. La sua crescita tumultuosa, iniziata nel XIX° secolo, continua secondo un principio di accelerazione che non accenna a inversioni di rotta. Sempre più globale, epicentro di una molteplicità di servizi e ramificata in un connubio di infrastrutture fisiche e digitali, fa della sua gestione una sfida complessa, impossibile da governare attraverso una cabina di comando semplificata.
Navigando questa trama fatta di interconnessioni, alcuni teorici dell’architettura ritengono che ripensare lo spazio urbano secondo metafore concettuali ispirate a leggi e presupposti di natura scientifica possa rivelarsi una chiave di volta efficace per ottimizzarne la resilienza. È da questa visione che nasce il biourbanismo, modello urbanistico che equipara la città ad un organismo vivente, dotato, al pari di qualsiasi struttura biologica organica, di un sistema di funzionamento non lineare.
Secondo il biourbanismo, la città sarebbe infatti un “antroma”, un sistema ecologico ridisegnato dall’uomo attraverso i suoi molteplici e stratificati interventi avvenuti nel corso della storia. Ricucire la distanza tra natura e costruito, fluidificando l’integrazione e la gestione sistemica di tutti gli elementi, permetterebbe di raggiungere una migliore qualità urbana e un miglior benessere psicologico per chi la città la abita e la fruisce.
Altrettante stratificazioni teoriche contribuiscono a definire il bagaglio di applicazione concettuale del biourbanismo. Alcuni, quali il design biofilo e la bioarchitettura, hanno un riferimento più specificatamente progettuale, e si rifanno in particolare alla teoria dei frattali e alla necessità di individuare e perseguire specifici modelli geometrici e formali, propri del mondo organico e spesso sedimentati anche nell’architettura vernacolare, per armonizzare l’integrazione tra costruito e ambiente. Altri, più spiccatamente metaprogettuali, guardano alla meccanica statistica, alla termodinamica, alla biologia evoluzionistica, alla biopolitica e all’epigenetica come ambiti da cui ottimizzare la pianificazione delle connessioni e dei flussi che regolano la fruizione degli scambi e dei servizi nel tessuto urbano.
L’obiettivo di questa azione sartoriale di ricucitura, come l’ha definita Christopher Alexander, architetto e teorico statunitense di origini austriache che è tra i riferimenti del movimento del biourbanismo, potrebbe essere sagacemente riassunto nella formula “costruire al di là del tempo”, così da infondere agli edifici una qualità imperitura e una governance più adattabile ed efficace.
«La nascita del biourbanismo come disciplina è frutto di connessioni inattese», ci racconta Antonio Caperna, presidente dell’International Society of Biourbanism, network scientifico non-profit che promuove le idee e la ricerca sul biourbanismo nel mondo. «Le idee di Christopher Alexander, generalmente boicottate dall’accademia, hanno rappresentato il punto di partenza per alcuni architetti, fisici, filosofi, biostatistici, psicologi, ecologi che hanno guardato all’architettura e all’urbanistica secondo le lenti della scienza della complessità e delle neuroscienze. Insieme, abbiamo elaborato un manifesto che delinea un nuovo approccio epistemologico e di paradigma all’architettura basato sulle scienze della vita, dell’ecologia profonda, e sui processi di morfogenesi». Il manifesto, del 2011, mette in rilievo il tipo di contributo scientifico che il biourbanismo può apportare alla più ampia disciplina architettonica, tra cui ritroviamo un rafforzamento dell’interconnessione tra fattori culturali e fisici dell’interno dell’ambiente urbano e la riorganizzazione della città a seguito del progressivo abbandono dei combustibili fossili.
Una prospettiva di attualità degli studi relativi al biourbanismo diventa dunque quella che si concentra sull’adattabilità dello spazio urbano al cambiamento climatico. Il biourbanista e architetto australiano Adrian McGregor lo spiega nel suo libro “Biourbanism”, pubblicato nel 2022 da Biourbanism Publishing. Le città emettono all’incirca il 75% delle emissioni di gas serra prodotte dall’uomo. Risolvere l’equazione della sostenibilità dei nostri consumi non può dunque che passare dalla decarbonizzazione degli ambienti urbani, che devono essere messi in condizione di diventare più efficienti e sostenibili.
In questo contesto, lo sforzo di McGregor è quello di sistematizzare i livelli che compongono la vita e la struttura antropica dell’ambiente-città. Qualora in equilibrio, i suoi dieci principi dell’abitare, il paesaggio, l’acqua, il cibo, i cittadini, l’economia, l’energia, le infrastrutture, la mobilità, la tecnologia e i rifiuti, governano efficacemente il benessere di una città. La resilienza urbana ottimale si ottiene quando uno di questi dieci sistemi non è impattato negativamente da un altro e quando le interrelazioni di questi sistemi sono gestite in modo mirato e reciprocamente vantaggioso.
Uno dei suoi più recenti progetti, quello per il “Mega Park” di Sydney, mira a costituire un parco su grandissima scala per la megalopoli australiana. L’ambiziosa proposta prevede la creazione di un nuovo anello di mille chilometri di spazio aperto entro il quale convergerebbero e sarebbero riuniti gli oltre 50 parchi e corsi d’acqua già esistenti, sotto l’egida di un unico ente. Con i suoi 1,5 milioni di ettari di spazio verde dislocati nell’omonima baia, il parco rappresenterebbe non solo il più grande parco urbano mai realizzato, ma anche un vero polmone verde per la città, capace di mitigare le emissioni oltre che di contrastare le ondate di calore e la crescita dello sprawl. Uno sforzo in linea con l’impegno del governo australiano, che a partire dalla COP 26 ha formalizzato il suo impegno a contrastare la limitazione della superficie forestale nel paese.