Ogni COP sul clima è importante. Il vertice annuale sul clima dell'ONU, da tempo ha però superato il suo obiettivo «ambientale» per diventare un negoziato su una nuova rivoluzione industriale, nel quale viene definita la forma futura del mondo, dai rapporti tra paesi e blocchi alle forme di energia ammesse nella transizione alle regole della finanza internazionale.
La 28esima conferenza del clima dell'ONU per la lotta ai cambiamenti climatici conclusasi a Dubai 13 dicembre con un giorno di ritardo rispetto al calendario ufficiale, era segnata nell’agenda del post-accordo di Parigi come particolarmente decisiva, anche più di quelle che l'hanno preceduta (Glasgow nel 2021 e Sharm el-Sheikh nel 2022), perché era quella in cui si scriveva il primo Global Stocktake, il controllo di percorso su come sta andando la lotta ai cambiamenti climatici.
Il 2023 è stato un anno drammatico per il riscaldamento globale, segnato da eventi estremi in ogni continente e da record di temperature dell'atmosfera e degli oceani che hanno spiazzato gli stessi scienziati. Il 2023 è passato alla storia come l'anno più caldo nella storia della civiltà umana, la comunità scientifica ha ribadito con una serie di rapporti (tra cui Emission Gap 2023 di UNEP e World Energy Outlook di IEA) che la finestra per evitare gli effetti peggiori della crisi climatica si sta chiudendo.
Per questi motivi, prima del vertice l'asticella per considerare quella di Dubai una COP di successo era stata fissata in una formula: da COP28 doveva uscire un accordo chiaro sul phase out, l'eliminazione graduale dei combustibili fossili (carbone, petrolio e gas) dai sistemi energetici. Dopo due settimane drammatiche di negoziato, il risultato finale scritto nel Global Stocktake si è avvicinato a questo obiettivo, pur senza raggiungerlo.
In diplomazia climatica le parole sono importanti, quindi la sfumatura linguistica dell'accordo di Dubai è decisiva. Invece di concordare per il phase-out, i 198 paesi riuniti a COP28 hanno deciso di «allontanarsi dai combustibili fossili», in un modo «equo, ordinato e giusto», accelerando l'azione in questo decennio critico per raggiungere lo zero netto delle emissioni al 2050, «in linea con le richieste della scienza».
L'elemento chiave di questa forma è il riferimento temporale: l'azione per il clima non può avere come obiettivo solo il 2050, ma deve accelerare a partire da questo decennio.
Tra le altre decisioni prese a COP28, c'è quella di triplicare la capacità da fonti rinnovabili di energia e raddoppiare il tasso medio annuo di efficienza energetica entro il 2030. Il Global Stocktake menziona anche le altre forme di energia ammesse per la transizione: nucleare, idrogeno, cattura e stoccaggio della CO₂ (ma solo per i settori nei quali è difficile tagliare le emissioni in qualsiasi altro modo). Infine, COP28 riconosce il ruolo dei «combustibili di transizione» per la sicurezza energetica. Non è scritto in modo esplicito, ma è un riferimento al gas, una frase che ne separa di fatto il ruolo rispetto agli altri due (carbone e petrolio).
Il Global Stocktake non ha un valore legale immediatamente applicabile nei singoli paesi: il suo significato è politico. Per la prima volta, dopo 27 COP in cui l'argomento era stato evaso, viene riconosciuto che per la lotta al riscaldamento globale serve fare a meno delle fonti fossili di energia.
In questo senso, il risultato può essere definito storico, a maggior ragione perché raggiunto sotto la guida politica di uno dei paesi più dipendenti economicamente da queste fonti di energia: gli Emirati. La COP28 era iniziata sotto auspici negativi, anche per la scelta del paese ospitante di affidare la presidenza, e quindi la guida del negoziato, a Sultan al Jaber, l'amministratore delegato dell'azienda petrolifera di stato emiratina, ADNOC. Il conflitto di interessi tra arbitro e giocatore non poteva essere più evidente, ed è stato sottolineato da una serie di notizie emerse durante il vertice.
La BBC ha scoperto che al Jaber aveva usato gli incontri della COP28 anche per rafforzare accordi commerciali sulle fonti fossili. Il Guardian ha diffuso la registrazione di un video in cui al Jaber sosteneva che il phase-out delle fonti fossili non fosse necessario per contenere l'aumento di temperature sotto 1.5°C (una posizione ai limiti del negazionismo). Reuters aveva fatto circolare una lettera dell'OPEC, l'organizzazione dei paesi produttori di petrolio (tra cui gli Emirati), che invitava i membri a opporsi a ogni accordo sul phase out. Viste queste condizioni, il risultato finale del Global Stocktake è notevole, e va considerato un testo dal quale far ripartire la lotta ai cambiamenti climatici.
Il significato politico del Global Stocktake potrà diventare azione concreta solo se i governi terranno fede all'impegno preso a Dubai, a partire dalla compilazione dei prossimi Ndc, i Nationally determined contribution previsti dall'accordo di Parigi.
Secondo quel trattato, firmato nel 2015, i paesi firmatari sono tenuti a pubblicare ciclicamente (ogni cinque o dieci anni) questi NDC, che contengono tutti i loro impegni climatici, e ad aggiornarli rendendoli via via più ambiziosi.
Gli attuali NDC non sono sufficienti per fermare l'emergenza climatica, e non permetterebbero di contenere l'aumento di temperatura né sotto 1,5°C rispetto all'era pre-industriale (come chiesto dalla scienza) né sotto 2°C (come previsto dall'accordo di Parigi). Andranno aggiornati entro l'anno prossimo, quella sarà una prima verifica dell'efficacia del Global Stocktake. La prossima conferenza sul clima sarà a Baku, in Azerbaijan, un altro paese (il terzo di fila) dipendente dall'esportazione di petrolio e gas. Uno dei temi delle prossime COP (Baku 2024 e Belém, in Brasile, 2025) è quello della finanza climatica: per i paesi in via di sviluppo o le economie emergenti uscire dai combustibili fossili richiede ingenti quantità di risorse e di trasferimento tecnologico. Su questo punto, il testo di Dubai è stato evasivo e ha lasciato la questione aperta per le prossime conferenze.