Le due settimane centrali di novembre hanno visto svolgersi la COP27 di Sharm El Sheikh, dedicata ai temi relativi della crisi climatica che riguardano il mondo intero e in particolar modo l'Africa, dove gli impatti acuti e cronici di questo fenomeno globale aumentano povertà, malattie infettive, migrazioni forzate e conflitti.
Massimiliano Giuseppe Falcone è communication strategist alla World Bank Group, Global Engagement and Partnership, per il progetto Connect4Climate e professore alla IULM di Milano. Infra Journal lo ha raggiunto per un commento proprio sull’ultima Conferenza delle parti della convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.
Prof. Falcone, la COP27 è terminata con un ritardo di due giorni, per arrivare a una risoluzione: qual è il bilancio finale?
«È stata una conferenza con troppe zone d’ombra e tanti ritardi. Pare che il prolungarsi delle negoziazioni sia stato determinato dalla volontà di arrivare a una soluzione, con l'istituzione di un fondo per le perdite e i danni subiti dai paesi più colpiti dalla crisi climatica, quelli in via di sviluppo particolarmente vulnerabili agli effetti negativi del cambiamento climatico».
È un vero traguardo? Cosa cambierà per i paesi emergenti e in via di sviluppo?
«Sicuramente è un grande risultato, che aiuterà quei paesi che più stanno subendo gli effetti devastanti della crisi climatica. Nell’ultimo ventennio, tra il 2000 e il 2020, il cambiamento climatico ha originato, secondo i dati dell’IPCC -Intergovernmental Panel on Climate Change- oltre 7.300 disastri naturali, che hanno impattato su oltre 4 miliardi di persone. Ciò significa, purtroppo, vite umane, difficoltà di accesso a servizi base, come acqua potabile, carestie, ma anche impossibilità di istruzione, a causa della distruzione di scuole o ridotta mobilità, per danni alle infrastrutture. Il tutto con perdite economiche per quasi 3mila miliardi di dollari in paesi già poveri. Da qui il tanto rincorso concetto di ‘giustizia climatica’. Ma è vera giustizia? Mi chiedo. Come si può parlare di traguardo se si è voluto creare una commissione di esperti le cui decisioni sono rimandate alla prossima COP? In pratica si deve aspettare ancora un anno. Inoltre alcuni titoli hanno decantato il ruolo dell’Unione Europea per la decisione. È vero, ma è anche vero che l’Europa è in realtà intervenuta con dei paletti, premendo perché le risorse fossero destinate solo ai paesi più vulnerabili, non a tutti i paesi in via di sviluppo, fra i quali figurano ancora superpotenze economiche come Cina e India».
Non crede che paesi così forti, e così impattanti sul cambiamento climatico, debbano pagare per compensare i danni arrecati sino ad oggi?
«La Cina è tra i paesi che più stanno investendo in soluzioni per produzioni realmente sostenibili e innovazioni per l’uso delle rinnovabili. Allo stesso modo l’India, un paese con grande capacità di ricerca, che sta giocando un ruolo sempre più attivo. Già nel 2009, in occasione della COP15 di Copenaghen, le principali economie mondiali si erano impegnate per intervenire con programmi di mitigazione e adattamento climatico dei paesi in via di sviluppo, destinando 100 miliardi di dollari all’anno da erogare entro il 2020. Ciò è rimasto sulla carta: non sono state erogate risorse e l’accordo non prevede neppure le modalità di erogazione. Le Nazioni Unite stimano che siano necessari circa 6mila miliardi di dollari perché i paesi più vulnerabili possano raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030».
Un fallimento dunque oppure vi sono ancora speranze?
«Vi sono speranze proprio perché ora è forte la coscienza dei giovani, di quelle future generazioni che chiedono di sedere non solo come osservatori, ma di avere un ruolo nelle decisioni. Basti pensare al fenomeno dei ‘Fridays for future’, i movimenti in seno al mondo UN, come YOU (official children and youth constituency of the United Nations Framework Convention on Climate Change), COY (Conference of Youth), la Youth4Climate nata durante la pre-COP26 a Milano, con il supporto del governo italiano, il programma della Banca mondiale Connect4Climate e l’UNDP. Oramai un gruppo permanente di lavoro per passare dalle proteste alle proposte, e dalle proposte all’azione, sono alcune delle realtà che ci fanno sperare. Abbiamo un nuovo movimento per l’educazione per il clima, Earthday, la più internazionale associazione ambientalista e quasi mezzo miliardi di studenti e docenti a livello globale formano una coalizione per l’obbligatorietà di insegnamenti sul tema. L’UNESCO sta contribuendo a renderla reale, creando una nuova cultura dell’insegnamento, con il piano “Transforming Education”. Se cambiano gli insegnamenti, se i giovani chiedono di avere accesso alle informazioni e a una formazione adeguata, per avere gli strumenti per intervenire, cambia la cultura, e con essa cambia il nostro mondo. È questa la speranza, e sarà, e dovrà essere, la COP28 di Dubai a rendere quella speranza una realtà».
Quali sono le attese per la COP28 di Dubai?
«Ogni COP si chiude parlando della successiva. Stavolta ho il sentore che la prossima sarà veramente un momento di svolta. Dubai è di per sé un esempio di transizione ecologica ed energetica, una prova tangibile di come la sostenibilità sia non solo possibile, ma anche profittevole per quella parte di settore privato, e per quei governi, che la pongano alla base delle proprie strategie. È per questo che gli Emirati Arabi potranno e vorranno essere il luogo dove si farà la storia».