«La tecnologia ha 70 anni e la produzione elettrica nucleare continua a calare, ormai è sotto il 10% su base globale. I giorni gloriosi sono passati. Nel 2021 la produzione rinnovabile ha superato quella nucleare e il gap diventerà una voragine». Nicola Armaroli, dirigente di ricerca del CNR, è uno dei massimi conoscitori italiani del sistema energetico e il suo giudizio sulle prospettive nucleari è negativo. Da qualche anno l'atomo è uno dei temi più discussi in Italia. Crisi climatica e impegni internazionali ci impongono di cambiare il sistema energetico, la guerra ha mostrato gli altri problemi di un sistema basato sulle fossili. È su queste basi che è rinato il partito del nucleare in Italia, trasversale e agguerrito. Per Armaroli, però, il dibattito è rinnovato, ma la tecnologia non ha risolto i suoi problemi.
Per quale motivo il nucleare non è l'energia di cui l'Italia ha bisogno?
«Tre motivi. Il primo sono i siti per gli impianti, in un paese dove il 94% dei comuni è a rischio idrogeologico. E dobbiamo considerare lo stoccaggio delle scorie: la tassonomia europea ci impone di tenerle in casa. I finanziamenti: servono centinaia di miliardi di euro, ma gli investitori non ci sono. La produzione elettrica è un mercato liberalizzato, non siamo in un'economia centralizzata come in Cina. E infine i tempi: ogni filiera paragonabile ci costringe a considerare 20, 25 anni per un reattore. È tempo che non abbiamo, dal momento che dobbiamo decarbonizzare quasi tutto il settore elettrico entro il 2030, per azzerare l’impronta di carbonio di tutto il sistema energetico entro il 2050».
È vero che c'è anche un problema di acqua?
«Ne occorre tanta per raffreddare i reattori, spesso collocati lungo i fiumi. La disponibilità di acqua in paesi a crescente rischio siccità come l'Italia fa venire meno anche l'idea che il nucleare produca energia 24 ore su 24. Negli USA, in Svizzera, in Francia gli impianti sono spesso rallentati per mancanza d'acqua; Loira e Rodano in secca sono un problema frequente per le centrali francesi».
I sostenitori del nucleare sostengono che senza atomo rimane la dipendenza dai combustibili fossili.
«Il nucleare non ci darebbe indipendenza. Più di metà dell’uranio viene dal Kazakistan. La tecnologia, per ragioni pratiche e di sicurezza, è in mano a poche aziende di quattro paesi: Russia, Cina, Francia e Stati Uniti. Il più grande esportatore mondiale di tecnologia nucleare è la Russia, non casualmente Rosatom non è soggetta a sanzioni, perché buona parte del nucleare europeo dovrebbe chiudere».
In Italia un altro ostacolo sono i tempi della politica.
«I governi durano in media 15 mesi. Un programma nucleare, nel corso di 20 anni, dovrebbe sopravvivere a 15 governi. Non è credibile che una scelta così complessa, costosa e divisiva possa reggere questi cicli politici».
I report IPCC - ONU - e Agenzia internazionale dell'energia inseriscono una quota di nucleare negli scenari zero emissioni.
«Il punto di vista IPCC non fa una piega. Se l'obiettivo è azzerare le emissioni, il nucleare non ha emissioni. Il problema è quando si passa dall'osservazione su carta della tecnologia al mondo reale. Non possiamo adeguare il mondo alla tecnologia, dobbiamo adeguare la tecnologia al mondo reale. È lo stesso errore della IEA quando suggerisce di fissare i costi di costruzione. Non si può fare con un colpo di penna. Se il nucleare fosse un’opzione facile, il paese più nuclearizzato al mondo - la Francia – non avrebbe difficoltà a sostituire i reattori decrepiti con nuovi impianti, invece il sistema francese è in difficoltà».
Il nucleare di quarta generazione cambia qualcosa?
«Torniamo alla differenza tra mondo sulla carta e mondo reale. Si parla di nucleare di quarta generazione da trent'anni e siamo ancora alla fase dei prototipi, la sperimentazione ha avuto incidenti che non ne raccomandano l'utilizzo, e con i problemi che abbiamo di clima stiamo discutendo di una tecnologia che da decenni non dà risultati. Al momento il nucleare di quarta generazione è uno slogan, non la soluzione».
Che ruolo può avere la fusione nucleare?
«Valgono le considerazioni sulla fissione di 4° generazione: eterna promessa mai realizzata. Tempo scaduto: il suo contributo alla decarbonizzazione entro il 2050 sarà nullo. Si continuerà a fare ricerca scientifica, ma con zero effetti pratici».
Senza nucleare come si chiude il cerchio dell'energia, contando che le rinnovabili hanno problemi di intermittenza.
«Uno dei guasti della narrativa nucleare è che discutiamo di applicare al mondo che avremo tra 20 anni una tecnologia che ne ha 70. Il sistema elettrico sarà diverso, con milioni di autoproduttori di piccola taglia: le utenze a bassa tensione, come la mia, sono il 99% e consumano metà dell'elettricità. La produzione diffusa è lo scenario, non quella centralizzata. Saranno decisivi gli accumuli, come le batterie, oggi al litio ma presto al sodio, con meno problemi di costi e approvvigionamenti. Inoltre la digitalizzazione razionalizzerà consumi e costi. E c’è un fervore di innovazione nel mondo degli accumuli. Il cambiamento è alle porte ed è fuori dalla realtà aggrapparsi a una tecnologia che non ha mai sfondato».
Questo è lo scenario per gli accumuli giornalieri, ma per quelli stagionali che tecnologie ci sono?
«Sugli accumuli stagionali siamo indietro. C'è spazio per usare di più l'idroelettrico, come negli anni '70 e '80, in prospettiva futura l'idrogeno è un'opzione, ma dovremo risolvere il problema dello stoccaggio, cioè dove conservare l'idrogeno nel quale accumuliamo l'energia da rinnovabili. Ma il mix non sarà solo fotovoltaico e batterie, che permettono di essere autosufficienti quasi dieci mesi l'anno nelle piccole e medie utenze (lo dico per esperienza personale) ma anche eolico, idroelettrico, geotermico e biomasse, che possono avere un ruolo con filiere sostenibili. Dobbiamo partire da un punto: siamo in ritardo rispetto alla crisi climatica. Ci servono soluzioni pronte, non futuribili. E il 90% delle soluzioni per la transizione le abbiamo già».