La recente conclusione di COP27 in Egitto è una buona occasione per ricordarci di come le COP, il negoziato multilaterale annuale dell'Onu sui cambiamenti climatici, siano strumenti imperfetti, ma anche unici e necessari. Nessun paese può essere forzato con sanzioni o altri strumenti a cambiare il modo in cui produce energia o cibo o tratta il proprio patrimonio naturale, l'unico strumento possibile per ridurre le emissioni di gas serra è un negoziato aperto basato sull'inclusione e la cooperazione, ed è esattamente questo il motivo per cui da trent'anni esistono le conferenze delle parti (COP) dell'Onu sui cambiamenti climatici. «Se il clima fosse un problema di diritto privato, sarebbe stato già risolto, invece al livello dei rapporti tra le nazioni questo tipo di negoziato è l'unico spazio che abbiamo per affrontarlo», ha detto in Egitto Mia Mottley, premier di Barbados, attualmente una delle figure più carismatiche del processo.
Le COP sono state istituite nel 1992 con il summit di Rio e la Convenzione quadro dell'Onu sui cambiamenti climatici, la prima fu tenuta nel 1995 a Berlino. Si dice spesso che il numero accanto alla sigla, COP27, sia la misura dei loro fallimenti: ventisette riunioni annuali e la crisi climatica è ancora la più grande minaccia esistenziale per l'umanità. Ma l'accordo di Parigi è stato frutto della COP21 del 2015, senza quell'impegno la traiettoria dell'aumento di temperature ci porterebbe sopra i 3°C in più rispetto all'era pre-industriale: la garanzia di un'apocalisse. Le COP si tengono ogni anno (2020 pandemico escluso), ce ne sono di positive e negative, deprimenti o vittoriose, minori o fondamentali. Quella di Sharm el Sheikh in Egitto era stata concepita per essere una COP di transizione, di “implementazione” dell'accordo di Parigi, ma in realtà ha portato almeno un grande risultato storico - la creazione di un fondo per aiutare i paesi colpiti da danni e perdite della crisi climatica - e ha gettato le basi per una nuova governance della finanza globale. Queste sono le luci, l'altro lato della medaglia è la debolezza del risultato sul fronte della mitigazione, cioè la riduzione del danno causato dalle emissioni di gas serra. Da quel punto di vista possiamo dire che il 2022 è stato un anno perso.
Il principale risultato di COP27 è aver istituito la terza gamba della finanza climatica. Fino a oggi gli aiuti per il clima dai paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo sono stati raccolti solo in uno strumento finanziario chiamato Green Climate Fund e sono stati destinati soltanto alla mitigazione e all'adattamento. Si tratta di due attività essenziali per ridurre i cambiamenti climatici e prepararsi ai loro effetti, ma prima di Sharm non erano mai state messe in campo delle risorse per compensare gli effetti già reali e presenti della crisi. Il riconoscimento operativo del loss & damage era atteso da trent'anni, per la prima volta in Egitto è entrato nell'agenda e poi nella decisione finale (cover decision) di una conferenza sul clima. Il fondo non sarà operativo prima del 2024: i prossimi due anni di negoziato serviranno a chiarire quali sono i paesi eleggibili per ricevere queste risorse, quali sono i paesi che dovranno partecipare come donatori e come andranno integrate le risorse pubbliche per un capitolo di spesa che potrebbe arrivare a 400 miliardi di dollari all'anno già dal 2030. I prossimi passaggi per definire questi aspetti, oltre ai negoziati intermedi, saranno la COP28, che si terrà negli Emirati Arabi, e COP29, con sede ancora da designare ufficialmente ma con Sofia in Bulgaria come candidata forte per ospitarla.
L'architettura stessa della finanza mondiale è stata messa in discussione a Sharm el Sheikh: il fronte dei paesi in via di sviluppo, guidato da Barbados, ha chiesto che vengano riscritte le regole del sistema Bretton Woods, che governa gli scambi monetari dalla seconda guerra mondiale, e il funzionamento del Fondo monetario internazionale. «Non si può combattere la crisi climatica se non si combatte anche la povertà», ha detto a Sharm il presidente eletto del Brasile Lula, e per combattere la povertà bisogna cambiare le regole del debito. La conversazione è iniziata a Sharm el Sheikh e proseguirà nei primi mesi del 2023, quando verrà presentata la Bridgetown Initiative, l'articolata proposta su questo tema della premier di Barbados e del suo inviato speciale Avishad Persaud, docente del Gresham College.
Aver concentrato tutte le risorse negoziali sulla creazione del fondo loss & damage ha lasciato scoperto il fronte della mitigazione e della riduzione delle emissioni, sul quale non ci sono stati passi in avanti rispetto al Glasgow Climate Pact di COP26 nel 2021. Nel testo finale, lo Sharm el Sheikh Implementation Plan, si parla ancora di una riduzione (phase down) del solo carbone e della fine dei sussidi pubblici inefficienti alle altre fonti fossili. Troppo poco rispetto al mandato della scienza, e a dati preoccupanti come quelli dell'Emission Gap Report delle Nazioni Unite. È stato confermato l'obiettivo di tenere l'aumento della temperatura a +1.5°C rispetto all'era pre-industriale (oggi siamo tra 1.1°C e 1.2°C), ma non sono stati messi in campo gli strumenti per raggiungere questo obiettivo, che anno dopo anno diventa sempre più ambizioso. I negoziatori non sono riusciti a inserire nel testo le misure necessarie, come il raggiungimento del picco delle emissioni da combustibili fossili al 2025 o il phase down di tutte le fonti fossili, quindi gas e petrolio e non solo carbone. Tra gli altri risultati degni di menzione: le linee guida ufficiali dell'Onu contro il greenwashing, il rafforzamento del Global Methane Pledge per ridurre le emissioni di metano del 30 per cento entro il 2030, e la creazione di uno scudo assicurativo globale contro gli effetti peggiori della crisi climatica chiamato Global Shield. Per azioni più incisive, appuntamento a Dubai, in un contesto ancora più complesso dell'Egitto per quanto riguarda i conflitti di interesse del paese ospitante.