«Riusciranno a bloccare il progresso dai combustibili fossili all'energia pulita? No, che non potranno. Trump può rallentare la transizione, ma non può ucciderla». La sintesi, pubblicata sul New York Times, è di una voce autorevole, quella di John Podesta, successore di John Kerry come inviato per il clima degli Stati Uniti nell'ultimo anno del mandato di Joe Biden.
Le prime settimane di Trump sono state brutali per la lotta ai cambiamenti climatici. Il presidente ha firmato l'uscita dall'Accordo di Parigi, ha ritirato la delegazione dal vertice dell'IPCC in Cina, ha iniziato a smantellare il lavoro di alcune delle più importanti istituzioni scientifiche dal paese, a partire dal NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration). I segnali sembrano tutti coerenti con uno degli slogan della sua campagna elettorale, “drill baby drill”, cioè la promessa di “trivellare, trivellare, trivellare”, prendendo allo stesso tempo di mira le fonti pulite e il piano clima dell'era Biden, l'Inflation Reduction Act (IRA). Quindi non c'è dubbio che Trump si scaglierà sulla transizione energetica come uno tsunami. La domanda però, non è se ci proverà, ma se ci riuscirà.
Per analizzare questa prospettiva bisogna dividere il campo di analisi in due livelli. Il primo è la transizione interna agli Stati Uniti, il secondo è transizione globale. Nel primo caso, un indizio di come potrebbero andare le cose lo suggerisce Ian Bremmer, presidente di Eurasia Group: lo stato degli USA che sta più beneficiando della transizione innescata nei quattro anni di Biden è il Texas. Gli effetti positivi per la creazione di posti di lavoro grazie agli incentivi e ai sussidi dell'IRA stanno arrivando soprattutto negli stati che tradizionalmente votano repubblicano, quindi andare aggressivamente contro quelle misure rischia di essere un disastro in termini di consenso. Se a Trump può non interessare, questo conta soprattutto per deputati e senatori repubblicani eletti in quegli stati, che potrebbero fare da argine al Congresso alle misure più drastiche di smantellamento.
In questo momento, la transizione americana è affidata più al mercato che alla politica. Come scrive Bremmer, “innovazioni tecnologiche, ripide curve di apprendimento e costi in calo hanno reso l'energia pulita più conveniente delle fonti fossili nella maggior parte dei mercati”. E questo è tutto quello che i mercati hanno bisogno di sapere. Secondo l'Agenzia internazionale dell'energia, nel 2020 negli USA si spendevano 200 miliardi di dollari l'anno in rinnovabili. Già nel 2023 erano 280 miliardi. Inoltre, la crescita dell'intelligenza artificiale e dei data center negli Stati Uniti renderà il paese ancora più energivoro, e questo andrà a vantaggio soprattutto di rinnovabili e nucleare.
Non sarà però senza effetti lo tsunami Trump, che ha di nuovo spalancato le possibilità di esplorazione ed estrazione su suoli federali (e gli USA erano già diventati leader globali di petrolio e gas durante gli anni di Biden con quei vincoli). Inoltre è difficile che l'impianto dell'Inflation Reduction Act resti intatto. I pezzi più a rischio sono gli sconti fiscali per chi compra auto elettriche e i fondi federali per migliorare l'infrastruttura delle colonnine. Anche l'eolico offshore è a rischio: è quello contro cui Trump si scaglia più spesso e sono gli impianti rinnovabili che hanno bisogno del maggior numero di autorizzazioni e permessi.
Nella nuova era Trump c'è anche stato un cambiamento culturale tanto improvviso quanto profondo nella percezione della sostenibilità, che in alcuni ambienti è passata dall'essere indispensabile per la costruzione di una reputazione per clienti e investitori all'essere irrilevante o addirittura tossica. Il primo segnale è stato dalle banche e dai fondi di investimento che, in una convulsa reazione a catena dopo la vittoria di Trump alle elezioni, hanno abbandonato una dopo l'altra la Net Zero Banking Alliance: ora avranno le mani ancora più libere nel finanziare o assicurare le estrazioni di fonti fossili di energia (anche se va detto che essere dentro l'alleanza non aveva avuto nessun vero effetto nel ridurre quel flusso).
È più complesso provare a leggere quali effetti avranno i quattro anni di Trump sugli scenari internazionali. La transizione energetica globale ha da tempo una matrice prevalentemente asiatica: la metà delle installazioni di fotovoltaico al mondo è in Cina, che raggiungerà il picco delle emissioni di gas serra con cinque anni di anticipo rispetto al previsto. Il paese con le emissioni più in crescita, l'India, guarda sempre di più alla decarbonizzazione come un processo strategico per la ridurre i costi della sua produzione di energia. Il problema sarà per le economie emergenti, energivore, in crescita ma con difficile accesso al credito e ancora molto legate al carbone. La finanza climatica pubblica e privata è fondamentale per accelerare le loro transizioni, anche con strumenti innovativi come le Just Transition Energy Partnership istituite alla COP26 di Glasgow. Gli Stati Uniti hanno già annunciato che si ritireranno da quella con il Sudafrica e in questo momento è incerto il destino delle analoghe iniziative con Vietnam e Indonesia.
L'uscita degli Stati Uniti dall'accordo di Parigi è un segnale preoccupante, perché la transizione globale è sempre un delicato equilibrio di competizione e cooperazione. L'inviata per il clima del Regno Unito Rachel Kyte ha detto che la comunità mondiale deve attrezzarsi a fare a meno degli Stati Uniti nei prossimi anni. Potrebbe essere un problema soprattutto per la ricerca scientifica e per la finanza climatica, soprattutto per le iniziative che è più difficile sostenere con le dinamiche di mercato classiche. Fanno parte di questa categoria i progetti di adattamento ai cambiamenti climatici o la compensazione dei danni e delle perdite da eventi estremi. Gli USA hanno già annunciato l'uscita dal fondo danni e perdite, istituito solo due anni fa. Lo scenario peggiore sarebbe una reazione a catena in cui altri paesi decidono, per cinismo, calcolo o convenienza politica, di imitare gli Stati Uniti nello smantellamento delle loro politiche climatiche. Il ritiro della delegazione dell'Argentina dell'amico Milei dalla COP29 di Baku era già segnale preoccupante in questo senso.