Durante una guerra le vie di comunicazione sono tra i primi elementi infrastrutturali a essere al centro di occupazioni, espropri e distruzioni. La ragione è facilmente intuibile: è attraverso di esse che le persone si muovono ed è attraverso di esse che un esercito può tenerle in scacco o muovere i propri attacchi militari in maniera più efficace. Anche in Ucraina è successa la stessa dinamica, dove, sin dall'inizio dell'occupazione del 24 febbraio scorso, le truppe russe hanno scelto obiettivi come porti e aeroporti per colpire e impedire il facile spostamento di civili, militari e rifornimento di vario tipo. A tutto questo va ad aggiungersi ovviamente la rete di informazione, altrettanto fondamentale per tenere insieme un Paese. Anche per questo la rete di internet satellitare Starlink è stata messa a disposizione dell'Ucraina dal fondatore, Elon Musk.
E pensare che le infrastrutture, di qualsiasi tipo, sono fondamentali per costruire la pace, collegando e mantenendo uniti popoli e Paesi. Anche Alessandro Gili, Associate Research Fellow ed esperto in Infrastrutture e Geoeconomia dell'ISPI, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, non ha dubbi: «Le infrastrutture sono lo strumento principale per creare interdipendenza e aumentare i flussi di commercio. Non solo, ma anche per incrementare i rapporti tra i popoli attraversati. Come ben sappiamo, la conoscenza reciproca e gli scambi commerciali sono forti incentivi per stabilire relazioni amichevoli tra gli Stati e i popoli. La gestione condivisa delle infrastrutture transfrontaliere può inoltre spingere Paesi potenzialmente ostili a collaborare».
Come la presenza delle infrastrutture sul territorio può orientare (in generale) le strategie militari offensive. E in particolare quali hanno questo ruolo? Ad esempio nel conflitto ucraino gli aeroporti sono stati colpiti per primi
«Le infrastrutture, in particolare quelle dual-use (con utilizzo sia civile che militare) sono fondamentali e il loro controllo può essere determinante nell’esito di un conflitto. Esse, infatti, assicurano i rifornimenti logistici alle parti in guerra ed è anche per questo che esse vengono distrutte o presidiate, al fine di bloccare la catena degli approvvigionamenti o impedire l’accesso alle città strategiche. Rientrano in tale categoria tutte le infrastrutture stradali, i porti e gli aeroporti. Anche il controllo delle infrastrutture energetiche è cruciale per il controllo del Paese occupato, potendo determinarne la paralisi. Nel caso degli aeroporti, invece, essi sono stati obiettivi prioritari per distruggere le capacità dell’aviazione ucraina e per impedire rifornimenti rapidi al Paese da parte degli Stati occidentali».
Le infrastrutture sono lo scheletro vitale di una nazione. A che punto erano le infrastrutture ucraine a livello di modernità?
«La dotazione infrastrutturale dell’Ucraina era ridotta già prima della guerra. Secondo il Logistic Performance Index della Banca Mondiale il Paese si posizionava al 66° posto al mondo, e addirittura 119° sulle infrastrutture. Alla vigilia della guerra il potenziale di transito merci dell’Ucraina era pari a 200 milioni di tonnellate metriche all’anno ma, proprio a causa della carenza di infrastrutture, solo il 25-30% risultava effettivamente utilizzato. Importanti investimenti erano tuttavia previsti secondo il Piano Drive Ukraine 2030, con finanziamenti cruciali di BEI e BERS, che avrebbero assicurato 60 miliardi entro il 2030. Infine, il Paese era centrale per le reti del trasporto ferroviario europeo TEN-T, in particolare il corridoio Lisbona-Kiev, oltre a rivestire un’importanza significative nella Nuova Via della Seta cinese».
Se l'Ucraina perde lo sbocco al mare in che modo potrebbero cambiare gli assetti?
«Dal punto di vista strategico ed economico sarebbe un colpo durissimo per il Paese. I porti di Odessa e Mariupol sono centrali per l’esportazione di materie prime e prodotti industriali. L’Ucraina è centrale nelle filiere alimentari mondiali, producendo il 36% dell’olio di girasole del mondo, il 9% del grano, il 10% dei semi di colza, e il 13% del mais. Ma anche nell’acciaio il Paese è un fornitore cruciale per i mercati internazionali, essendo il dodicesimo produttore al mondo. Naturalmente, senza sbocco al mare, l’Ucraina non potrebbe più esportare agevolmente tali prodotti, che diverrebbero meno competitivi se inviati attraverso altri mezzi di trasporto».
Quali sono le ripercussioni sulla filiera delle infrastrutture italiane (arrivo delle materie prime per la costruzione)?
«L’Italia è considerevolmente esposta per quanto riguarda alcuni materiali utilizzati in edilizia provenienti dall’Ucraina. Infatti, su un totale di 3,3 miliardi di euro di importazioni dall’Ucraina, circa 2 miliardi sono prodotti metallurgici, che trovano largo uso nel settore delle costruzioni, oltre che in diversi settori dell’industria pesante».
In che modo questo conflitto sta mettendo e metterà in difficoltà l'economia del nostro Paese e dell'Eurozona?
«L’OCSE ha già stimato che il conflitto in Ucraina potrà determinare una riduzione delle stime di crescita per l’Eurozona dell’1,5%, portando quindi la prospettiva per la crescita del PIL nel 2022 dal 4,5% al 3%. Identica traiettoria per l’Italia, le cui stime passerebbero da un +4,3% ad un +2,7%. Le difficoltà maggiori derivano dalla crescita esponenziale nei prezzi di gas e petrolio, che stanno mettendo in difficoltà imprese e famiglie. Non da ultimo, la carenza e il rialzo dei prezzi anche delle materie prime non energetiche complica ulteriormente il quadro, ponendo seri rischi per la produzione delle imprese e tensioni inflattive».
Il concetto di globalizzazione così come lo abbiamo conosciuto si è concluso?
«Già dalla crisi della pandemia la globalizzazione aveva iniziato a cambiare volto. Si è compreso che alcune catene globali del valore, in particolare nei settori strategici, non potessero più essere così frammentate a livello globale e come l’Europa non potesse più dipendere dalla Cina per i beni essenziali, concetto ribadito all’interno della nuova Strategia industriale europea e nell'EU Chips Act. La guerra in Ucraina ha posto un’ulteriore accelerazione alla regionalizzazione delle catene del valore ma si è spinta addirittura oltre, fino a determinare progressivamente un decoupling totale tra le economie occidentali e quella russa».
Abbiamo davanti una realtà che sembra "data" ma che, come sempre, è figlia dei trattati, dei conflitti e della pace precedenti. Cosa sta cambiando secondo lei da questo punto di vista?
«Come in tutti i conflitti, la guerra è il momento di cesura netta che viene a negare i trattati, il diritto internazionale e le situazioni precedenti. Per l’Europa si tratta di un incubo in quanto sperava di essersi liberata dopo le sanguinose guerre balcaniche degli anni ‘90. Inoltre, la guerra oggi si inserisce in un contesto di crescenti relazioni economiche e di interdipendenza tra gli Stati e quindi le conseguenze si ripercuotono ancor di più a livello mondiale».