Tra i lemmi candidati a diventare “parola dell’anno” dell’Oxford Dictionary per il 2022 c’era anche “metaverso” e non c’è molto di cui meravigliarsi. Da mesi se ne sente parlare, dalle proiezioni fanta-economiche alle tecnologie più dirompenti passando, il più delle volte, per l’aneddotica più curiosa. Una tendenza che probabilmente ha toccato l’apice quando lo stato di Vanuatu, minacciato dall’innalzamento dei mari a causa del cambiamento climatico, ha annunciato di volersi ricreare nel metaverso per non scomparire, o almeno non del tutto, una volta che i suoi atolli saranno stati inghiottiti dall’oceano Pacifico.
Una provocazione, anzi, una giusta denuncia fatta sulla cresta dell’onda, ma niente di più. Perché il metaverso, in quella forma immersiva rappresentata dalla realtà virtuale, non è ancora abbastanza. Soprattutto, perché il metaverso non è un mondo parallelo e scollegato dal nostro, in cui i poveri abitanti di Vanuatu avranno sempre una casa. O almeno non dovrebbe esserlo, pena la perdita di significato di quella parola, che comincia con “meta-” e indica, al contrario, una convergenza. Al di là della narrazione viene allora da chiedersi: il metaverso esiste davvero e, se sì, come dobbiamo considerarlo?
Mark Zuckerberg è riuscito a imporre un concetto che poco più di un anno fa non era che un ricordo letterario di amanti della fantascienza (il termine è stato coniato dallo scrittore Neal Stephenson nel romanzo Snow Crash) o l’orpello di qualche filosofo. Rinominando la sua azienda Meta e investendo miliardi di dollari in ricerca e sviluppo, il fondatore di Facebook non ha visto un dollaro in più, anzi. Ma ha quantomeno distolto l’attenzione dai problemi più grandi dei suoi social network, come la moderazione dei contenuti, le ricadute psicologiche sugli utenti, l’efficacia ridimensionata degli strumenti pubblicitari. Al contempo ha fatto salire agli onori delle cronache piattaforme pressoché sconosciute.
Così oggi l’idea di muoversi in uno spazio tridimensionale per entrare in contatto con altri avatar e seguire ogni sorta di attività, come concerti ed eventi sportivi, non è così bizzarra. Ma di cosa parliamo in concreto? Decentraland e Sandbox, che dichiarano circa 200mila utenti attivi al mese ciascuno, sono al momento i principali tra i mondi virtuali non interamente dedicati al gaming (come Fortnite, per intenderci), seguiti da altri come Cryptovoxels, Somnium Space, Axie Infinity e Horizon Worlds, quello ufficiale di Meta, che ha ulteriori 200mila utenti. In totale queste piattaforme sono al momento frequentate da meno di un milione di persone ogni mese. Instagram, da sola, ne raggiunge 2 miliardi. C’è perfino una diatriba in corso sui conteggi, perché a settembre la società di analisi DappRadar ha registrato su Decentraland appena 38 utenti attivi in un giorno.
Ognuno di questi mondi virtuali è poi isolato rispetto agli altri, con il proprio design, le proprie criptovalute, perfino il proprio dispositivo d’ingresso (a Horizon Worlds si può accedere solo con visori Oculus, prodotti dalla stessa Meta). Caratteristiche esclusive, di cui anche gli sviluppatori informatici sono obbligati a tenere conto per creare contenuti su misura, disperdendo risorse e rallentando l’espansione del metaverso stesso. In attesa di decisioni concrete sull’interoperabilità delle piattaforme, quello che oggi molti identificano con il metaverso consiste in alcune versioni crypto di Second Life: un ampliamento del gaming con possibilità di usare valute virtuali e poco altro.
Stiamo parlando del nulla? Vediamo un po’ di numeri. Nel 2021 grandi aziende, venture capital e fondi di private equity avevano già investito 57 miliardi di dollari di investimenti correlati al metaverso, una somma che a metà 2022, secondo McKinsey & Co, era già raddoppiata. Nel rapporto Value Creation in the Metaverse la nota società di consulenza manageriale stima che, nel suo complesso, il metaverso potrebbe generare fino a 5mila miliardi di dollari entro il 2030: si tratta di un valore superiore al Pil del Giappone, terza economia al mondo. Tra quattro o cinque anni il 30% delle organizzazioni nel mondo avrà prodotti o servizi nel metaverso, riporta Gartner nello studio Critical Insights on Metaverse, e il 25% della popolazione spenderà almeno un’ora al giorno a contatto con essi. Non stiamo parlando del nulla. Semmai dovremmo parlare d’altro.
In primo luogo dovremmo ricordare che il metaverso è tante cose: non solo realtà aumentata, virtuale e mista, ma anche intelligenza artificiale, Internet of Things, blockchain, i cosiddetti NFT (Non Fungible Tokens), 5G e altro ancora. Quella più immersiva, su cui Mark Zuckerberg ha attirato la nostra attenzione e che è oggetto della narrazione, spesso spicciola, che ha portato in auge Decentraland e compagnia, rappresenta solo una sfaccettatura del metaverso. In secondo luogo, dovremmo andare oltre, per guardare agli utilizzi a cui questa sfaccettatura si presterà, ben più ampi del social networking fatto di avatar virtuali che partecipano a concerti o riunioni di lavoro. McKinsey prevede un impatto tra i 2mila e 2.600 miliardi di dollari sul mondo e-commerce entro il 2030. Un valore tra 180 e 270 miliardi sarà generato dalle applicazioni della realtà virtuale ad apprendimento e didattica. Il mercato pubblicitario potrebbe beneficiarne per 206 miliardi. Risultati a cui potrebbe contribuire anche la realtà virtuale, ma solo in parte.
Oggi il metaverso è soprattutto ciò che ancora non vediamo o che, distolti da qualche aneddoto curioso, non vogliamo vedere. Se si tratta, per usare la sintetica ma efficace definizione di Gartner, del “convergere della realtà fisica e di quella digitale, virtualmente potenziate”, forse ci siamo già dentro da un pezzo. Basti pensare ai filtri divertenti che possiamo applicare alle nostre storie su Instagram, a Lens, lo strumento per la ricerca visuale creato da Google, o ancora ai suggerimenti in tempo reale che è in grado di darci Google Maps. Questo tipo di convergenza, sempre più profonda e pervasiva, è a cui puntano investimenti miliardari e per cui ha senso parlare di metaverso e farlo sempre meglio. Magari senza bisogno di uno Snoop Dog che fondi su Sandbox una città a suo nome (Snoopverse, che esiste davvero) o di uno Stato neo-virtuale come Vanuatu.